Come riconoscerlo
Il mobbing è un processo in crescendo secondo fasi ben prevedibili e identificabili.
Tra i vari modelli che gli studiosi hanno elaborato per facilitarne il riconoscimento vi è quello del dott. H. Ege, che descrive il fenomeno secondo uno schema sequenziale con diversi stadi nei quali pone in evidenza il punto di vista dell’individuo mentre subisce le azioni vessatorie:
- la pre-fase detta “condizione zero” (non è ancora mobbing), caratteristica della sola realtà italiana.
Si sostanzia nel conflitto normale, fisiologico e comunemente accettato, ossia nella situazione di frizione (ad es. diverbi, antipatie, piccole ripicche, competizione, tentativi di far carriera etc.) che riguarda tutti i lavoratori e non una vittima precisa;
- la fase del “conflitto mirato”, dove il ruolo della vittima è cristallizzato, cosi come l’obiettivo di distruggerla, di eliminarla e di dirigere su di essa la conflittualità generale, attraverso attacchi non più limitati all’ambito professionale ma che attengono anche argomenti della sfera privata;
- la fase di “inizio del mobbing”, contraddistinta dalla percezione da parte del mobbizzato del mutamento delle relazioni con i colleghi (c.d. stigmatizzazione collettiva);
- la fase dei “primi sintomi psicosomatici”, in cui la vittima inizia ad essere ossessionata dal lavoro, a sentirsi inadeguata e a somatizzare il disagio, avvertendo insonnia, problemi digestivi ed altri disturbi che la costringono ad assentarsi per malattia;
- la fase degli “errori ed abusi dell’amministrazione del personale”, quando il caso di mobbing trascende i limiti dell’ufficio/reparto e diventa pubblico, favorito dagli errori di valutazione dell’amministrazione del personale che, diffidando della lealtà del dipendente, prende provvedimenti disciplinari nei suoi confronti per le sempre più frequenti assenze e per la ridotta produttività lavorativa;
- la fase del “serio aggravamento della salute psicofisica della vittima”, dove il mobbizzato soffre di forme depressive e si cura con psicofarmaci che lasciano insoluto il problema.
La vittima mortificata non è in grado di rendersi conto dell’ambiente ostile e sfavorevole al punto da imputare a sé e alla propria incapacità la causa del fallimento lavorativo;
- la fase “esclusione dal mondo del lavoro”, ovvero dove la vittima trova l’uscita dal mondo del lavoro, rassegnando le dimissioni oppure chiedendo il prepensionamento (o anche la pensione di invalidità) o addirittura subendo il licenziamento.
Nei casi più gravi di disperazione tale fase può portare a compiere persino atti estremi, quali il suicidio o l’omicidio del mobber.
È possibile, tuttavia, il verificarsi di variazioni del processo con il venir meno di alcune fasi e una più rapida conclusione dello stesso.
Tra le conseguenze del mobbing si annoverano sia i danni provocati alla vittima sia quelli all’azienda, allo Stato e al mobber stesso (se diverso dall’azienda).
Sul piano psicosomatico la vittima può soffrire di insonnia, di cefalea, di problemi digestivi, di dolori muscolari, di tremori, di attacchi di panico e nei casi più gravi di patologie psichiatriche, quali il disturbo d’ansia generalizzato, la depressione, il disturbo post traumatico da amarezza (ossia la reazione psicologica ad un evento di vita negativo, che non è pericoloso per l’integrità fisica propria o altrui, ma provoca sentimenti di rancore, di rabbia, d’impotenza e d’ingiustizia) e, in caso di stalking, il disturbo post traumatico da stress (reazione psicologica ad un evento di vita negativo che comporti una minaccia all’integrità fisica).
Inoltre, tale vulnerabilità si riverbera nel conteso esistenziale, dove si assiste alla perdita d’iniziativa, d’interesse, di creatività, dell’autostima (porta al pessimismo e all’incapacità di tenere il confronto o la semplice conversazione con gli altri) e al rifiuto dei contatti sociali con i membri della famiglia e con gli amici (la c.d. crisi relazionale).
In verità, il nocumento è altresì aziendale, poiché un luogo di lavoro conflittuale esaurisce in breve tempo le energie e le potenzialità più consapevoli, determinando un significativo calo della produttività (il lavoratore che lavora meglio è quello che è ben integrato nell’ambiente di lavoro e personalmente coinvolto negli obiettivi).
Non vanno dimenticati i costi aziendali delle assenze per malattia del mobbizzato, quelli per la perdita di personale specializzato se la vittima abbandona il posto di lavoro e l’azienda ha la necessità di sostituirla attraverso l’assunzione di nuovo personale da formare (ovvero i costi in termini di know-how aziendale), nonché per il dispendio di rendimento, di tempo e di risorse del mobber (di entità maggiore se il soggetto attivo è l’intero gruppo di lavoro).
Gli effetti del conflitto si ripercuotono anche sullo Stato e quindi sull’intera società dato che fa lievitare gli oneri del sistema sanitario nazionale per le assenze dal lavoro e del sistema previdenziale nel caso di prepensionamento o di invalidità causata dal lavoro.
Il mobber stesso, infine, può subire problematiche psichiche e fisiche, tra cui il forte stress dovuto allo stato perenne di sovra attivazione, vale a dire dal lavoro diretto verso la vittima, considerata come un obiettivo altamente motivante.
In Italia non esiste una normativa specifica in materia che definisca il fenomeno sociale in esame e che tuteli il lavoratore mobbizzato (contrariamente a quanto avviene in altri paesi europei, in primis nei Paesi Scandinavi, dove fin dal 1993 si sono diffusi i rimedi di prevenzione).
Tuttavia, si possono rinvenire nel nostro ordinamento diverse norme che permettono di predisporre adeguate forme di garanzia alle condotte illecite e, in alcuni casi, criminose che il mobber pone in essere.
Nella costituzione italiana, l’articolo 35 salvaguarda il lavoro “in tutte le sue forme ed applicazioni”, l’articolo 32 tutela il diritto fondamentale della salute e l’articolo 41 garantisce la libertà dell’iniziativa economica privata che “non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”.
Il diritto alla salute, inteso come benessere fisico, mentale e sociale, è un diritto primario e fondamentale dell’individuo e come tale dà luogo all’obbligo giuridico di riparazione in caso di sua violazione, ossia la sua lesione impone il risarcimento del danno in capo al responsabile.
Inoltre, i parametri invalicabili della sicurezza, della libertà e della dignità dell’uomo rendono illegali tutte le iniziative economiche assunte in contrasto con essi.
Tali principi costituzionali sono direttamente positivizzati nel codice civile, in quello penale e nelle leggi speciali.
Gli artt. 2043, 2049 e 2087 del cod. civ., infatti, prevedono rispettivamente l’obbligo di risarcimento in capo a chiunque cagioni ad altri un danno “ingiusto” con qualunque fatto doloso o colposo (non solo danno patrimoniale ma anche morale, alla vita di relazione, biologico ed esistenziale), la responsabilità degli appaltatori e dei committenti “per i danni arrecati dal fatto illecito dei loro domestici o commessi nell’esercizio delle incombenze a cui sono adibiti” e il dovere dell’imprenditore di “adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”.
Nel diritto penale si rilevano profili di responsabilità per le azioni mobbizzanti, le quali possono integrare le fattispecie del reato di calunnia (art. 368 c.p.), di maltrattamenti in famiglia (art. 572 c.p.), di lesioni personali colpose (art. 590 c.p.), di ingiuria (art. 594 c.p., ora depenalizzato), di diffamazione (art. 595 c.p.), di violenza sessuale (art. 609 bis c.p.), di violenza privata (art. 610 c.p.), di minaccia (art. 612 c.p.) e di atti persecutori (art. 612 bis c.p.).
Con riferimento alle leggi speciali, infine, la tutela è ravvisabile nello statuto dei lavoratori, nella parte relativa alla salute ed all’integrità fisica del lavoratore (art. 9) e in quella sugli atti discriminatori (art. 15); nel codice delle pari opportunità (d.lgs. 198/06), sui divieti di discriminazioni di genere nel lavoro (libro III); nel testo unico sulla salute e sicurezza sul lavoro (d.lgs. 81/2008), sugli aspetti dello stress lavoro-correlato e dei rischi psicosociali.
Il mobbizzato, pertanto, può esperire i tradizionali rimedi civilistici e penalistici per citare in giudizio il mobber, ma permane a suo carico l’onere di provare:
- di essere vittima di comportamenti vessatori;
- l’evento lesivo della salute o della personalità;
- il rapporto eziologico tra la condotta denunciata e il danno subito.
Le prove possono essere fornite con le testimonianze, la produzione di documenti, le consulenze medico legali e le registrazioni.
È ammessa la possibilità di aggiungere alla richiesta di danno la reintegrazione in forma specifica (art.2058 c.c.), qualora si voglia ripristinare la situazione precedente all’evento dannoso, sempreché sia possibile (ad es. nei casi di demansionamento, di illegittimo trasferimento etc.).
Un valido supporto nella valutazione della presenza del mobbing e del grado di lesione da esso derivante, da cui è possibile quantificare il danno, l’ha fornito il “Metodo Ege” (pubblicato nel 2002), ossia un procedimento di fasi successive utilizzato dagli psicologi:
- la prima fase consiste nella “determinazione del mobbing”, attraverso la verifica empirica della presenza contestuale di sette parametri oggettivi (ambiente lavorativo; frequenza; durata; tipo di azioni; dislivello tra gli antagonisti; andamento secondo fasi successive; intento persecutorio), l’acquisizione delle risposte fornite dalla vittima all’apposito questionario all’uopo predisposto, il “LIPT Ege”, nonché al colloquio tenuto con il perito esperto (lo psicologo);
- la seconda si sostanzia nella “valutazione della Lesione Accertata da Mobbing (L.A.M.) totale permanente”, vale a dire nel calcolo matematico dell’entità del danno derivato dal mobbing accertato nella prima fase, secondo valori convenzionali che conducono alla percentualizzazione della lesione riportata;
- l’ultima consta nella “quantificazione monetaria della L.A.M. totale permanente”, ovverosia nella determinazione dell’indennizzo monetario che il mobbizzato può richiedere al giudice a titolo di risarcimento per l’insieme dei danni ricevuti.
Introduzione al mobbing militare
L’ambiente militare è tipico perché i rapporti sia con i superiori sia con i colleghi di pari grado sono caratterizzati dalla presenza di una severa disciplina, di una condizione di necessario rigore che fa parte del modello organizzativo delle Forze Armate.
Ne deriva che anche le normali dinamiche lavorative, rientrando in un sistema più autoritario, sono differenti rispetto a quelle riscontrabili negli altri ambiti.
In un ambiente chiuso come quello delle caserme, dove si rimarcano sempre più i doveri di fedeltà, di onore, di disciplina, di coraggio etc., è possibile che si configuri una lesione della dignità del militare, la cui dimostrazione è complessa, in virtù proprio della gerarchia, della subordinazione e del quasi cieco adempimento degli ordini che possono dar vita a comportamenti borderline in grado di superare facilmente il limite “fisiologico” della disciplina militare.
La difficoltà primaria consiste nel discernere le condotte arbitrarie e censurabili da quelle ordinarie e conformi alle regole previste per tutti gli arruolati, di comprendere il labile confine tra la disciplina e l’abuso di potere, ossia, con specifico riferimento al mobbing, di distinguere le basi oggettive delle vessazioni e del disegno persecutorio del mobber da quello che è fuorviante perché è presunto tale dalla mera rappresentazione soggettiva del militare vittima.
Su quest’ultima argomentazione, infatti, si è spesso negata la presenza di comportamenti mobbizzanti nelle Forze Armate, favorita per di più dal muro invalicabile di omertà tipico.
Nondimeno il fenomeno si verifica realmente e non può essere più ignorato, sebbene non sia facile riscontrarne l’esistenza, così come sia complesso arrivare alla sua dimostrazione.
In un ambiente permeato dal rigore, proprio della disciplina militare, intesa quale insieme di norme che regolano i rapporti tra militari e lo stesso status militare, stralciare
attacchi preordinati contro il militare, ripetuti, collegati tra loro e non casuali, è compito assai arduo ma non impossibile.
Invero, la giurisprudenza ha più volte mostrato un atteggiamento piuttosto cauto per non confondere il mobbing sia da tutte quelle attività ostili e rientranti nelle normali relazioni di gruppo sia dagli atti che non posso palesemente definirsi contrari alle finalità di legge, così ha precisato il Tar Lazio nella sentenza n.10977 del 14.11.2018: “anche atti di per sé leciti, possono essere considerati come tali qualora posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente nel perseguimento un disegno vessatorio e l’inoppugnabilità dell’atto non equivale a legittimità dello stesso; è anche vero, tuttavia, che tali atti devono rivelare un intento persecutorio, sicuramente non ravvisabile qualora gli stessi siano legittimi, in quanto posti in essere nel perseguimento dell’interesse pubblico e non di diversi fini. Così la fattispecie del mobbing non è configurabile quando negli stessi provvedimenti non siano presenti palesi aspetti eccesso di potere, nella forma dello sviamento di potere, per essere stati adottati per finalità persecutoria anziché per quella prevista dalla legge. Non è sufficiente, quindi, anche se è necessario, che gli atti siano illegittimi, ma è anche indispensabile che l’insieme o la combinazione di essi denotino l’intento persecutorio perseguito da parte di chi ha adottato gli atti nei confronti del dipendente”.
Ma c’è anche giurisprudenza, il Tar Molise nella sentenza n. 23 del 19.11.2016, che ha messo in evidenza gli elementi da comprovare per dimostrare le condotte da parte dell’Amministrazione volte a screditare il militare, unite dall’intento vessatorio e da un antecedente progetto idoneo ad annientarlo: le azioni disciplinari reiterate e poi richiamate in autotutela, il mancato tempestivo pagamento di rimborsi per missioni, i trasferimenti per dubbie incompatibilità ambientali con superiori, i dinieghi di qualunque tipo frapposti a qualunque lecita richiesta del militare diretta al proprio superiore, la negazione senza motivi di accesso agli atti e costrizione del dipendente a rivolgersi alla Commissione per l’Accesso la quale a sua volta stabiliva l’obbligo di ostensione, i diversi provvedimenti sanzionatori adottati dall’Amministrazione nei confronti del militare poi annullati in sede giurisdizionale, i rapporti valutativi contenenti giudizi non favorevoli al militare annullati anch’essi in via giurisdizionale dallo stesso Tar Molise, che aveva rilavato come il conteso fosse “obiettivamente connotato da accesa conflittualità che superava la fisiologica dialettica tra differenti gradi gerarchici e le eventuali diversità caratteriali delle persone, costituendo, semmai, espressione di una logica di contrapposizione in cui emergeva un atteggiamento, da parte degli ufficiali valutatori, pregiudizialmente negativo nei confronti del ricorrente e che verosimilmente era presente anche al momento in cui sono stati elaborati gli impugnati giudizi valutativi”.
Tuttavia, non basta fornire la prova delle azioni nefaste dell’Amministrazione nei riguardi del militare, ma occorre anche la dimostrazione più complessa del nesso causale tra i fatti accertati in corso di causa e il danno che ne è scaturito a carico della persona che lo rivendica, ai sensi dell’art. 2697 cc.
Dunque, a prescindere dalla maggiore o minore forza d’animo e di carattere del soggetto, senza che si generi uno stato di ansia in relazione allo svolgimento della prestazione lavorativa dovuto alla presenza di una situazione ostile, nonché senza una sorta di consapevolezza in ordine alla disistima da parte del proprio ambiente lavorativo che ne mina l’autostima ed è fonte di grave sofferenza, specialmente in tale contesto, non si può parlare di mobbing e non può esserci il relativo danno, condizione imprescindibile per adire l’autorità giudiziaria.
- Le note caratteristiche
Le note caratteristiche costituiscono il documento tipicamente utilizzato nelle forze armate per registrare il giudizio espresso nei confronti di un militare da parte dei propri superiori.
Tale valutazione riguarda principalmente il rendimento del militare durante il servizio prestato, tramite la compilazione di una scheda valutativa composta da una serie di voci a ciascuna delle quali sono assegnati una serie di giudizi, dal più basso al più alto. Generalmente le voci individuate permettono la valutazione a 360° del militare ed attengono all’aspetto esteriore dello stesso, alle proprie caratteristiche fisiche, caratteriali ed intellettuali, nonché alla motivazione al lavoro, alle competenze acquisite in relazione alla propria esperienza, alla capacità d’esecuzione degli incarichi affidati e alla capacità d’iniziativa e autonomia nello svolgimento degli stessi, alla volontà e la frequenza d’aggiornamento professionale.
La scheda valutativa si conclude con un giudizio finale e con l’attribuzione delle qualifiche finali da parte delle competenti autorità militari o civili della difesa:
- a) eccellente;
- b) superiore alla media;
- c) nella media;
- d) inferiore alla media;
- e) insufficiente.
Tale documento viene redatto a cadenza periodica (generalmente ogni anno) e si riferisce ad un lasso di tempo specifico che deve essere individuato precisamente all’interno del documento stesso. Sotto questo aspetto, è utile precisare che ciascuna valutazione è valida solamente per il periodo di tempo indicato e che ciascuna valutazione è indipendente dalle altre effettuate in precedenza o successivamente. In ragione di ciò, si sottolinea che per la formazione delle note non possono venire in rilievo elementi, fatti o circostanze antecedenti al periodo di riferimento, né le valutazioni precedentemente espresse possono influenzare il giudizio espresso in seguito. Di conseguenza, sussiste un principio di attualità e tempestività della compilazione delle note caratteristiche, le quali devono essere redatte a seguito di eventi specifici, ovvero al termine del periodo preso come riferimento.
Inoltre, la nota caratteristica è espressione del giudizio diretto del superiore del militare, il quale deve basare le proprie valutazioni tramite la conoscenza personale e diretta del militare e del proprio operato.
Ciascuna valutazione deve essere effettuata non solo in base all’acquisizione diretta delle informazioni sul rendimento ed al servizio prestato dal militare, ma deve anche essere ispirata a principi di imparzialità ed obiettività.
A tal proposito, è fondamentale il ruolo svolto dal revisore, al quale compete, come ultima autorità titolata ad esprimere il giudizio sul valutando, la formulazione di un giudizio e di una qualifica finale (tramite la traduzione in sintesi dei giudizi formulati nel documento caratteristico), nonché il controllo sull’attività di valutazione posta in essere dal compilatore. Infatti, è data facoltà al revisore di correggere, integrare, confermare il giudizio di merito espresso dal compilatore attribuendo la qualifica finale.
Una valutazione positiva non è solo motivo di assegnazione degli annuali premi di produzione, ma costituisce la base essenziale di giudizio per la futura carriera del militare ed è, pertanto, in grado di determinarne lo sviluppo in senso positivo o negativo.
Una qualifica “inferiore alla media” può determinare gravi conseguenze non solo sul piano economico, ma anche la mancata progressione di carriera del militare, mentre una valutazione negativa espressa per due volte di seguito può determinare la dispensa dal servizio permanente, conseguenza particolarmente grave.
Come qualsiasi provvedimento amministrativo, il documento caratteristico può essere viziato per eccesso di potere, incompetenza e violazione di legge. In particolare, è essenziale che il provvedimento sia provvisto di un’adeguata motivazione, logica e coerente.
Di frequente l’Amministrazione esprime giudizi tramite “formule di rito” standardizzate che talvolta possono essere contraddittori o talaltra non trovare riscontro nella condotta del militare. In particolare, le note caratteristiche devono esprimere un giudizio coerente non solo con l’operato militare ma con quanto espresso all’interno del documento stesso. È soprattutto necessario giustificare un improvviso abbassamento dei giudizi rispetto a quelli precedentemente espressi tramite un’adeguata motivazione. Quest’ultima deve essere specifica e precisare sulla base di quali elementi si reputa equo un giudizio piuttosto che un altro, nonché le ragioni a supporto dell’asserito peggioramento.
Sul punto, il TAR per la Lombardia (sede di Milano) ha chiarito che “se è vero che le valutazioni dei militari contenute nei vari documenti caratteristici sono regolate dal principio di autonomia e indipendenza dei giudizi, è altresì vero (cfr., sul punto, T.A.R. Lazio, Sez. I-bis, n. 10468/2012, id., n. 5862/2011) che, in presenza di precedenti e costanti valutazioni favorevoli del militare, le denunciate flessioni di rendimento, unitamente alla intervenuta carenza nelle doti già riscontrate, devono essere dettagliatamente motivate, al fine di consentire la verifica dell’iter logico seguito, di volta in volta, dall’Amministrazione.”, precisando che devono essere soggette ad attento vaglio soprattutto quei giudizi inerenti ad elementi che, per loro natura, non sono suscettibili di significative variazioni nel breve periodo. Quindi, sebbene l’autorità militare goda di un’ampissima autonomia di espressione e di discrezionalità nell’esprimere le proprie valutazioni, le stesse risultano caratterizzate da un eccesso di potere “ove non sussista nessun elemento nuovo tale da giustificare una diversa valutazione. Ciò con particolare riferimento a quelle valutazioni che attengono a caratteristiche consolidate in una persona quali le qualità morali e di carattere e le qualità culturali ed intellettuali” (Tar Emilia Romagna sent. n. 602/2013), le quali, seppur potenzialmente suscettibili di variazioni in negativo nel corso del tempo, raramente sono soggette ad una sistematica e complessiva riduzione, tale che, in tal caso si impone una sintetica motivazione che spieghi le ragioni della improvvisa flessione dei giudizi (Tar Lombardia sent. nr. 953/2013; Tar Lecce Sent. nr. 702/2016).
L’onere motivazionale posto a carico dell’Amministrazione è, pertanto, tanto più elevato quanto è maggiore il lasso di tempo durante il quale il militare è stato valutato positivamente (Tar Lazio Sent. Nr. 113/2012). La motivazione deve basarsi su elementi fattuali ben precisi: ad esempio, essa non deve essere generica ma deve richiamare le eventuali contestazioni in cui è incorso il militare a causa della propria negligenza; mentre, al contrario, sarà giudicato del tutto contraddittorio ed illogico un giudizio negativo espresso in vivo disaccordo con l’esistenza, durante il periodo di riferimento, di lettere di apprezzamento dei superiori e quant’altro testimoni una situazione tutt’altro che negativa (Tar Lombardia Sent. nr. 1202/2016).
Concludendo, è principio ormai consolidato che l’improvviso peggioramento della valutazione richieda il supporto di un minimo sforzo motivazionale, in particolar modo quando il giudizio finale sia destinato ad incidere negativamente nella sfera giuridica del valutando; pertanto, sebbene le schede valutative vadano considerate nella loro autonomia, “ciò non toglie che, nei casi in cui si riscontra una soluzione di continuità nella successione delle valutazioni, sia necessario giustificare adeguatamente l’improvviso mutamento di qualifica” (Tar Liguria Sent. nr. 605 del 2012). La caduta verticale del giudizio a fronte di valutazioni favorevoli costanti impone, dunque, un adeguato corredo motivazionale che giustifichi la denunciata flessione generale del rendimento e ciò al fine di rendere esplicito, intellegibile e verificabile l’iter logico seguito dall’amministrazione.
Alcuni elementi costitutivi di un giudizio negativo possono essere le eventuali modifiche degli incarichi assegnati e/o delle funzioni rivestite, ovvero la presenza di alcune contestazioni disciplinari, le assenze giustificate, nonché tutta la documentazione atta a delineare complessivamente il comportamento tenuto dal militare in servizio. In assenza di alcun elemento nuovo di questo tipo non è possibile modificare in negativo un giudizio positivo costante afferente a caratteristiche ormai consolidatesi nel tempo. Di conseguenza, qualora improvvisamente la valutazione in merito all’operato del militare sia soggetta a mutamento senza che vi siano elementi nuovi valutabili a tal fine, essa deve ritenersi senz’altro sospetta, in ragione della evidente discrasia emergente dalla comparazione del nuovo giudizio con i precedenti, tutti positivi, senza che vi sia stata alcuna variazione delle funzioni e dell’incarico.
Altro aspetto importante è la coerenza del giudizio espresso fra il compilatore ed il primo revisore. Tuttavia, egli non è vincolato al giudizio del primo, ma assolve piuttosto una funziona di controllo, essendo deputato a correggere, integrare o confermare il giudizio espresso dal compilatore tramite la formulazione del giudizio finale e l’attribuzione della qualifica. Il primo revisore, inoltre, deve esprimere il proprio giudizio sulla base di una conoscenza effettiva e diretta del militare e del suo operato. Qualora ciò non sia possibile, ovvero in tutti i casi in cui non sia possibile effettuare una valutazione obiettiva ed imparziale, il primo revisore è tenuto ad astenersi dal giudicare o ad acquisire ulteriori informazioni ed elementi necessari per la valutazione.
Pertanto, il giudizio finale deve essere sempre essere improntato alla conoscenza diretta del militare e del proprio operato, in quanto diversamente risulterebbe del tutto arbitrario ed illegittimo. Tale impostazione trova altresì conferma nella pronuncia n. 1444/2006 del T.A.R. Calabria, dove, per l’appunto, affrontando la tematica della competenza nella redazione dei documenti caratteristici, viene chiarito che la peculiare struttura organizzativa dell’Arma, il più delle volte, vede localizzati anche a grande distanza i comandanti di reparto ed i loro superiori gerarchici, non garantendo quel giudizio personale e diretto del valutando che va a costituire il presupposto essenziale della nota caratteristica.
Infine, il provvedimento illegittimo può essere annullato esperendo in primis il ricorso al superiore gerarchico, mentre in secundis, a seguito di rigetto, è proponibile il ricorso giurisdizionale presso il Tribunale Amministrativo regionale competente.
- Il procedimento disciplinare
Il mobbing all’interno delle forze armate può manifestarsi attraverso l’applicazione di sanzioni disciplinari ingiustificate o sproporzionate rispetto all’entità dell’illecito disciplinare concretato. Queste, dunque, possono essere irrogate esclusivamente a seguito di un peculiare procedimento disciplinare, secondo quanto disposto dalle specifiche normative di settore.
Il procedimento disciplinare applicabile alle forze armate ed ai corpi militari possiede una particolare forma e struttura che lo differenzia sia dal procedimento disciplinare utilizzato per gli altri dipendenti pubblici sia da quello previsto nel settore privato.
Attualmente le normative di riferimento sono il Codice dell’Ordinamento Militare[1] e il c.d. Regolamento, ossia il “Testo Unico delle disposizioni regolamentari in materia di ordinamento militare”[2].
Dal 2012, inoltre, una serie di interventi legislativi (i decreti n. 7 e 8 del 2014 e gli ultimi interventi riformatori del 2015- 2016) hanno innovato profondamente la disciplina esistente, eliminando la c.d. “pregiudizialità del giudicato penale” sul procedimento disciplinare, uniformandolo, tramite espresso rinvio, a quanto previsto per i dipendenti delle pubbliche amministrazioni[3].
- La disciplina militare e l’illecito disciplinare
Al fine di comprendere i casi può essere legittimamente avviato un procedimento disciplinare, sulle prime occorre definire la “disciplina militare” come l’insieme di nome e disposizioni che stabiliscono gli obblighi e i doveri di comportamento dei militari, nonché le sanzioni da irrogare per assicurare il rispetto dei predetti.
Ebbene, ogni comportamento che violi la disciplina militare o i doveri di servizio, come descritti nel Codice o nel Regolamento costituisce un illecito disciplinare.
In seguito all’accertamento della responsabilità del militare possono trovare applicazione le sanzioni disciplinari di stato o di corpo.
Più precisamente, una prima definizione di “disciplina militare” è rinvenibile all’interno del Codice dell’Ordinamento Militare, il quale al Titolo VIII – rubricato per l’appunto “Disciplina Militare” – individua le regole ed i principi basilari dell’Istituzione militare. L’art. 1346 c.o.m. afferma che “la disciplina militare è l’osservanza consapevole delle norme attinenti allo stato di militare in relazione ai compiti istituzionali delle Forze armate e alle esigenze che ne derivano. Essa è regola fondamentale per i cittadini alle armi in quanto costituisce il principale fattore di coesione e di efficienza”.
Dunque, il militare è tenuto all’osservanza consapevole delle norme attinenti lo stato e la disciplina militare, nonché al rispetto dei rapporti gerarchici. Dalla rigida struttura gerarchica discende il dovere di obbedienza, il quale, ai sensi dell’art. 1347 c.o.m., è assoluto e consiste nella “esecuzione pronta, rispettosa e leale degli ordini attinenti al servizio e alla disciplina, in conformità al giuramento prestato”.
Il successivo art. 1350 c.o.m. definisce, invece, le condizioni di applicazione della suddetta normativa, affermando che “i militari sono tenuti all’osservanza delle norme sulla disciplina militare e sui limiti all’esercizio dei diritti, dal momento della incorporazione a quello della cessazione dal servizio attivo, ferma restando la disciplina dettata per il personale in congedo”.
In particolare, queste norme sono rivolte ai militari che:
- a) svolgono attività di servizio;
- b) sono in luoghi militari o comunque destinati al servizio;
- c) indossano l’uniforme;
- d) si qualificano, in relazione ai compiti di servizio, come militari o si rivolgono ad altri militari in divisa o che si qualificano come tali.
In conclusione, quindi, il militare che pone in essere una condotta configurabile quale illecito disciplinare può essere sottoposto ad un procedimento disciplinare diretto ad accertarne la responsabilità e, di conseguenza, può essere destinatario del provvedimento e della relativa sanzione disciplinare.
[1] D.lgs. 15 marzo 2010 n. 66 e successive modifiche ed interazioni, di seguito “il Codice” o “c.o.m.”
[2] D.P.R. 15 marzo 2010 n. 90 e successive modifiche ed integrazioni.
[3] La l. n. 124 del 7 agosto 2015 e il D.lgs n. 91 del 26 aprile 2016, hanno introdotto importanti modifiche all’art. 1393 c.o.m., che disciplina i rapporti fra il procedimento disciplinare e il procedimento penale. L’art. 1393, rinviando espressamente all’art. 55-ter del D.lgs. n. 165 del 30 marzo 2001 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni), recepisce quanto già previsto per la regolazione dei rapporti fra procedimento disciplinare e procedimento penale nell’ambito del pubblico impiego, uniformando la disciplina delle forze armate e dei corpi militari a quella degli altri dipendenti delle pubbliche amministrazioni. In precedenza, era previsto quale principio generale che, “se per il fatto addebitato al militare è stata esercitata azione penale, ovvero è stata disposta dall’autorità giudiziaria una delle misure previste dall’articolo 915, comma 1, il procedimento disciplinare non può essere promosso fino al termine di quello penale o di prevenzione e, se già iniziato, deve essere sospeso”, in tal modo disponendo la pregiudizialità del procedimento penale rispetto a quello disciplinare. Al contrario, a seguito delle sopracitate riforme, è venuta meno la sospensione obbligatoria del procedimento disciplinare.
- I trasferimenti immotivati
Malgrado le differenze tra il trasferimento a domanda e quello d’autorità siano decisamente marcate, anche in relazione ai riflessi pratici che ne derivano per l’interessato, non sempre è pacifica la natura giuridica di alcuni trasferimenti, attesa la difficoltà di individuare chi tra l’amministrazione e il dipendente è titolare della posizione di maggiore interesse alla movimentazione.
In particolare, con riferimento a quelle ipotesi in cui emerge contestualmente sia una manifestazione di volontà del dipendente che un interesse dell’Amministrazione, entrambe coincidenti nella scelta della sede. Ad esempio, è stato chiarito che se viene disposto il trasferimento di un militare in una sede scelta dallo stesso quale “sede di preferenza”, qualora venga comunque ravvisata nella disposta mobilità la preminenza dell’interesse istituzionale della P.A., sarà dovuto al militare trasferito l’emolumento di secondo legge (Cons. St., sez. IV, n. 6279/2000). In pratica, pur in presenza di un significativo gradimento del dipendente alla nuova sede individuata dall’Amministrazione, l’emolumento sarà dovuto nel caso in cui emerga un interesse preminente dell’Amministrazione che, ebbene, da solo assume valore assorbente.
La problematica delle sedi di preferenza ha avuto un sensibile contenzioso con riferimento alla soppressione di alcuni enti militari ed alla contestuale movimentazione del personale che vi prestava servizio. In tali contesti, l’approccio dell’Amministrazione è stato per lo più quello di gestire una tale movimentazione di massa mediante la richiesta a ciascun dipendente delle sedi di preferenza, pur mantenendo il provvedimento quale trasferimento di autorità alla luce di una preminente esigenza organizzativa dell’Amministrazione.
Una forma di trasferimento che non ha generato dubbi interpretativi è il cd. trasferimento per incompatibilità ambientale. Esso è stato dalla giurisprudenza ricondotto nell’ambito dei trasferimenti per esigenze di servizio, non costituendo una fattispecie autonoma ma inquadrandosi quale species dei trasferimenti di autorità.
La finalità del trasferimento di un dipendente pubblico per incompatibilità ambientale è quella di ripristinare il corretto e sereno funzionamento dell’Ufficio restituendo allo stesso il prestigio, l’autorevolezza o l’immagine perduti (da ultimo, Cons. St., sez IV, 1133/2000). Lo stesso non ha carattere sanzionatorio né postula un comportamento contrario ai doveri d’ufficio e non ha natura disciplinare, essendo subordinato ad una valutazione ampiamente discrezionale dei fatti.
Parte della dottrina, non ancora accreditata da giurisprudenza, ritiene possibile la responsabilità amministrativa per l’ente nei casi di trasferimento per incompatibilità ambientale. In particolare, se i fatti e gli episodi posti a base della dichiarata incompatibilità sono di estrema gravità e di risonanza pubblica e la condotta tenuta risulta causativa del c.d., clamor fori e la Pubblica Amministrazione deve affrontare dei costi finalizzati a ripristinare l’immagine lesa, si può configurare un’ipotesi di danno all’immagine dell’Amministrazione di appartenenza del militare, il quale può essere chiamato in giudizio dinanzi alla competente sezione giurisdizionale della Corte dei Conti.
La lesione all’immagine della P.A. è determinata essenzialmente da comportamenti contrari ai principi fondamentali di organizzazione e di azione costituzionalmente rilevanti. La potenzialità dannosa del comportamento illecito va saggiata in concreto, caso per caso, per cui nessun rilievo assumeranno comportamenti sporadici, mentre la pluralità, la gravità ed il conseguente impatto sull’opinione pubblica di tali fatti costituisce un sicuro indice della diffusione della conoscenza da parte dei cittadini dell’esistenza di una distorta organizzazione dei pubblici poteri e, conseguentemente, della presenza di un danno certo per la p.a., danno che può essere quantificato equitativamente (Corte dei Conti – sez. I giur. d’appello – sent. 18 giugno 2004, n. 222).
Infine, nella tipologia di trasferimenti del personale militare, va accennato il “trasferimento a seguito di rinvio a giudizio” previsto dall’art. 3, comma 1, Legge 27 marzo 2001, n. 97 (regola i rapporti tra procedimento penale e procedimento disciplinare). L’articolo disciplina le conseguenze che si riverberano sul rapporto di servizio a seguito di un decreto di rinvio a giudizio del dipendente pubblico, accusato di taluni reati gravi contro la P.A. (artt. 314, 317, 319, 319 ter e 320 c.p.). Sicché, viene imposta all’Amministrazione l’adozione di specifici provvedimenti nei confronti del dipendente che possono trovare concreta attuazione nel trasferimento in un “ufficio diverso” o in un “trasferimento di sede” o nel collocamento “in posizione di aspettativa o di disponibilità” quando non è possibile attuare il mero trasferimento di ufficio/sede.
Esaminata nello specifico la peculiarità del trasferimento d’autorità e la rispettiva tutela accordata sia in sede amministrativa che giurisdizionale, analizziamo le pretese risarcitorie che il militare può avanzare in concreto quando è colpito da un provvedimento di trasferimento illegittimo.
Sulle prime va verificato se gli interessi procedimentali in argomento sono collegati ad una utilitas, ovvero un bene della vita protetto, ai fini di una loro possibile tutela in via risarcitoria. In caso di risposta positiva, la privazione o il non completo godimento dello stesso può costituire fonte di pretesa risarcitoria poiché produttive di riflessi negativi nella sfera giuridica dell’interessato.
Difatti, la legge n. 241/1990, consentendo al destinatario dall’atto conclusivo del procedimento di avvalersi di strumenti partecipativi, permette ai beni della vita (interessi materiali) dello stesso di trovare ingresso nel circuito decisionale dell’Amministrazione per una ponderazione comparativa tra gli interessi perseguiti.
In tale contesto, una delle ultime forme di danno elaborate dalla giurisprudenza è il cd. danno esistenziale, quale danno non patrimoniale.
Sulla categoria dei danni non patrimoniali, la sentenza della Corte costituzionale 233/2003 ha fatto chiarezza in merito alla legittimità ed efficacia dell’art. 2059 c.c., fornendo una visione in linea con altre le precedenti pronunce della IV sez. pen. della Cassazione (8827 e 8828/2003). La Corte costituzionale ha chiarito che per la configurazione dell’art. 2059 c.c. non occorre l’accertamento in concreto della fattispecie di reato. Difatti, se è vero che l’art. 2059 c.c. prevede la risarcibilità dei danni non patrimoniali solo nei casi derivanti da reato, è altrettanto vero che il legislatore ha ammesso la risarcibilità nelle ipotesi estranee alla fattispecie penale e dunque senza la presenza di un reato vero e proprio.
Inoltre, la giurisprudenza ha individuato, nell’ambito dell’operatività dell’art. 2043 c.c., le ipotesi di danno non patrimoniale risarcibili senza la presenza di un reato.
Ne consegue il formarsi di un sistema di “risarcimento bipolare”, dove al danno di natura patrimoniale si aggiunge quello non patrimoniale, previsto dall’art. 2059 c.c., nei casi di lesione di valori riferiti alla persona, quali: l’integrità fisica e morale, la libertà etc. Pertanto, ad avviso della Corte, l’art. 2059 c.c. deve essere interpretato nel senso che il danno non patrimoniale, in quanto riferito all’astratta fattispecie di reato, è risarcibile anche nell’ipotesi in cui, in sede civile, la colpa dell’autore del fatto risulti da una presunzione di legge.
Sono individuate diverse categorie di danno non patrimoniale: danno esistenziale, biologico e morale.
Il danno esistenziale è definito come la forzosa rinuncia allo svolgimento di attività non remunerative che costituiscono fonte di compiacimento o di benessere per il danneggiato, ovvero quella infinita serie di pregiudizi che si riflettono negativamente nell’esistenza di un soggetto e rendono la vita relazionale difficoltosa.
Esso si differenzia dal danno biologico perché è indipendentemente da una lesione fisica o psichica e dal danno morale perché non si sostanzia in una sofferenza, ovverosia in un “sentire”, ma in una rinuncia all’attività concreta, ovverosia in un “fare/non fare” dove la sofferenza può solo essere una conseguenza ulteriore. Infine, si distingue dal danno patrimoniale poiché questo si identifica in una deminutio patrimonii.
Nei rapporti di lavoro, il danno esistenziale trova la sua concreta applicazione in quei danni alla personalità relativi alla lesione dei diritti inviolabili della persona costituzionalmente garantiti e si categorizza in:
- danno professionale;
- danno psicologico transeunte;
- danno alla serenità della vita familiare;
- danno alla serenità della comunità lavorativa;
- danno alla salutare fruizione dei piaceri e delle gratificazioni della vita di relazione e dei rapporti sociali.
Innumerevoli sono le conseguenze dannose che possono scaturire da un illegittimo agire del datore di lavoro. Per cui un trasferimento illegittimo può certamente rappresentare un campo privilegiato di applicazione della categoria del danno esistenziale, incidendo pesantemente sull’appagamento esistenziale del militare.
Al riguardo, rileva citare una recentissima pronuncia della Cassazione (26 maggio 2004, n. 10157) con riferimento ad un illegittimo trasferimento di un lavoratore ed al suo contestuale demansionamento. La Corte ha ritenuto che un siffatto agire da parte del datore di lavoro viola non solo lo specifico art. 2103 c.c. ma si traduce anche in una lesione del diritto fondamentale del lavoratore alla libera esplicazione della sua personalità nel luogo di lavoro, garantita dagli artt. 1 e 2 della Costituzione. Con la conseguenza che il pregiudizio derivato da tale lesione, dispiegandosi nella vita professionale e di relazione dell’interessato, ha un’indubbia dimensione patrimoniale che lo rende suscettibile di risarcimento, determinato e liquidato dal giudice con valutazione equitativa, ai sensi dell’art. 1226 c.c.
Dunque, i provvedimenti del datore di lavoro che illegittimamente menomano il diritto del dipendente alla libera esplicazione della sua personalità vengono a ledere inevitabilmente l’immagine professionale, la dignità personale e la vita di relazione del lavoratore, in termini di autostima e di eterostima nell’ambiente di lavoro ed in quello socio familiare.
Sono i riflessi nel contesto familiare ad assumere il maggior rilievo ai fini della configurabilità del danno di natura esistenziale di un trasferimento illegittimo. Sebbene il militare rivesta uno status che gli impone di accettare le diverse movimentazioni, le stesse devono essere connesse alle reali esigenze di servizio nonchè rispettose delle ridette esigenze familiari. Si tratta di “ostacoli” alla vita familiare che vengono mitigati da alcuni interventi del legislatore, non ancora considerati sufficienti.
Risulta chiaro, pertanto, quanto sia importante individuare l’esatta natura giuridica dei provvedimenti di trasferimento di autorità, attesa la differente tutela predisposta ai soggetti destinatari.
Abbiamo anche sottolineato come, indipendentemente dalle disquisizioni dottrinarie, l’indirizzo giurisprudenziale prevalente allo stato attuale è quello fornito dal Consiglio di Stato, che equipara il provvedimento di trasferimento dei militari a un ordine e lo considera un atto sottratto alle garanzie procedimentali fissate dalla l. 241/1990.
A tale giurisprudenza prevalente si affianca una minoritaria di alcuni tribunali amministrativi regionali, che non intravedono quei presupposti idonei ad esonerare l’atto di impiego del militare dalla normativa di carattere generale dell’atto amministrativo.
Nonostante l’indirizzo fornito dai giudici amministrativi di secondo grado risulti prevalente, non è consentito all’Amministrazione di tenere comportamenti arbitrari, illogici o irrazionali nei confronti del proprio personale: comportamenti frutto di mero arbitrio sono considerati comunque illegittimi. Piuttosto, in un contesto di ordinaria gestione del personale militare il destinatario del provvedimento di impiego non gode della medesima tutela accordata a qualsiasi altro lavoratore.
Abbiamo evidenziato la sussistenza di profili di illegittimità costituzionale relativi alla diversa sede giurisdizionale accordata al militare rispetto agli altri pubblici impiegati: il personale militare è soggetto al giudice amministrativo, gli altri al giudice ordinario mediante un rito speciale per la materia del lavoro.
Queste differenziazioni sono conseguenza della specificità dell’ordinamento militare e trovano una logica motivazione nella necessità di preservarlo da quegli istituti (es. il diritto di sciopero) che mal si conciliano con una struttura di tipo gerarchico. La specialità dell’ordinamento militare incontra, però, un limite nelle garanzie costituzionali di carattere generale come il diritto di difesa accordato al militare destinatario di un provvedimento illegittimo.
In sintesi, non è auspicabile mantenere una posizione rigida favorevole o di senso contrario sulla natura del trasferimento d’autorità come “ordine”, mentre è più opportuno non fissare alcun principio generale sulla materia e rimettersi alla prudente valutazione del giudice, che deve primariamente verificare le condizioni di luogo e di tempo che hanno condotto all’emanazione del provvedimento. Tale valutazione esige di contemperare scrupolosamente le esigenze dell’Amministrazione con quelle del dipendente, avendo presente, da un lato, il particolare status del ricorrente e i suoi doveri, dall’altro, valutando ed apprezzando il particolare contesto di urgenza e di operatività della Forza Armata procedente, nonché la sua attualità (un aspetto non scontato, poiché se insussistente può configurare l’ipotesi di eccesso di potere dell’Amministrazione con possibili riflessi di natura risarcitoria in favore del dipendente.
I REATI PERSEGUIBILI
Laura Lieggi
Avvocata
Analizziamo le tipologie di condotte mobbizzanti che possano assumere gli estremi di specifici reati comuni, previsti dal nostro codice penale.
- La calunnia
Tale reato trova la propria disciplina nell’art. 388 c.p,, a mente del quale se un soggetto, per mezzo di denuncia, querela, richiesta o istanza (diretta all’autorità giudiziaria o altra che ne abbia ordine di riferirne alla medesima) incolpi di un reato una persona che sa essere innocente o simula a carico di questa le tracce di un reato.
Il bene giuridico tutelato è quello del corretto funzionamento dell’amministrazione della giustizia.
Dunque, elementi costitutivi del reato di calunnia:
1) la falsa incolpazione;
2) la certezza dell’innocenza da parte del calunniatore;
3) la dichiarazione formale posta all’autorità giudiziaria o di polizia.
Pertanto, giova chiarire che non è sufficiente offendere l’onore o la reputazione di qualcuno, ma è fondamentale la falsa incolpazione di un soggetto per un fatto che corrisponda ad una fattispecie astratta delittuosa.
La prova più ardua, in sede processuale, consiste proprio nel dimostrare che il querelante o denunciante fosse consapevole dell’innocenza dell’incolpato, ovvero avesse dolosamente, cioè con volontà e coscienza, e senza alcun errore, voluto attribuire la commissione del fatto di reato.
Se questi sono i tratti che caratterizzano il reato di calunnia, in giurisprudenza si trovano numerose pronunce che hanno contribuito a delinearne i connotati in modo più preciso.
Secondo Cassazione penale, il delitto di calunnia ha natura plurioffensiva perché lede l’interesse dello Stato alla corretta amministrazione della giustizia e offende l’onore dell’accusato che è legittimato a opporsi alla richiesta di archiviazione del relativo procedimento. In relazione all’elemento materiale, perché si configuri il reato di calunnia non è necessario che nella denuncia siano indicati gli elementi costitutivi del reato, basta la chiara indicazione del fatto oggetto di falsa accusa.
Passando all’elemento soggettivo, il dolo si concretizza nella consapevolezza dell’innocenza dell’accusato, mentre a niente rilevano i moventi psicologici della condotta del reo.
- Le molestie e le vessazioni
Il reato di molestie alle persone trova la propria collocazione normativa nell’art.660 c.p. e si configura quando, in luogo pubblico o aperto al pubblico, ovvero con il mezzo del telefono, chiunque, per petulanza o altro biasimevole motivo, reca a taluno molestia o disturbo.
La petulanza è ravvisabile ove si riscontri un modo di agire pressante, ripetitivo, insistente, indiscreto ed impertinente, che finisce per condizionare le abitudini e, più in generale, la sfera psichica del soggetto passivo.
Il reato in narrativa, solitamente, si estrinseca con corteggiamenti non graditi, telefonate (anche sms) o espressioni volgari, nelle quale il motivo sessuale, però, non fa parte della condotta penalmente rilevante del soggetto molestatore. Il motivo esula dell’elemento materiale del reato che consiste in una condotta a forma libera, che può assumere svariate modalità.
Trattasi di reato eventualmente abituale, caratterizzato dalla non necessarietà della reiterazione dei comportamenti di disturbo (come chiarito dalla Suprema Corte che ha previsto la configurabilità anche in presenza di una sola azione di disturbo o molestia).
Quale elemento psicologico dell’agente, invece, occorre la sussistenza della precisa e consapevole volontà di arrecare fastidio e vessazioni alla vittima.
Spesso sono stati considerati casi di mobbing le molestie sessuali, che il legislatore non ha previsto in un autonomo delitto (facendole rientrare rientrare nel un più generico reato di molestia o disturbo alle persone arrecato per una ragione riprovevole) definite dalla giurisprudenza quali condotte continue ed insistenti di corteggiamento che risultino sgradite alla persona destinataria.
- I maltrattamenti in famiglia
Il reato di maltrattamenti contro familiari o conviventi trova la propria collocazione sistematica nell’art. 572 del codice penale. La fattispecie sussidiaria al diverso reato di “abuso dei mezzi di correzione e disciplina” si perfeziona quando “Chiunque maltratta una persona della famiglia o comunque convivente, o una persona sottoposta alla sua autorità o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l’esercizio di una professione o di un’arte”, e prevede una graduazione della pena diversa qualora dal fatto derivi una lesione personale grave o, addirittura, gravissima, portando la pena detentiva nel massimo edittale di 20 anni.
Il codice inquadra il reato tra i delitti “contro la famiglia”, ma l’interpretazione più moderna tende a collocare questi comportamenti tra i reati contro la persona o, meglio, contro i soggetti deboli, al fine di salvaguardare l’incolumità fisica e psichica delle persone ritenute “più facilmente aggredibili”.
Più in radice, il delitto in questione si realizza solo quando si accerta l’esistenza di una condotta abituale che si concretizza in più fatti lesivi dell’integrità fisica o morale e della libertà o del decoro delle persone della famiglia nei confronti dei quali viene posta in essere una condotta di sopraffazione sistematica, in modo tale da rendere mortificanti, ancorché dolorose, le relazioni tra l’autore e la vittima. Nella nozione di “maltrattamenti” rientrano sia le aggressioni fisiche in senso stretto (percosse, lesioni), sia gli atti di vessazione, disprezzo e sopruso, tali da incidere in modo significativo sulla individualità della persona maltrattata che ne subisce, di conseguenza, una significativa sofferenza morale o fisica.
Orbene, spesso la giurisprudenza, sia di legittimità che di merito, si è posta l’interrogativo di dover individuare la norma incriminatrice più adatta per far rientrare le pratiche mobbizzanti nelle condotte penalmente rilevanti. A riguardo, ha concentrato maggiormente i propri sforzi interpretativi prorpio in favore di quest’ultimo reato, in quanto caratterizzato da una pluralità di atteggiamenti oppressivi che, se ripetuti nel tempo, appaiono potenzialmente più idonei ad abbracciare l’insieme delle condotte mobbizzanti.
Arresti giurisprudenziali più recenti considerano integrato il reato nei confronti dei lavoratori da parte del datore, o un suo preposto, solo nei casi in cui le dimensioni dell’azienda siano particolarmente ridotte, ritenendo solo in tali circostanze la relazione tra i due soggetti meritevole di assumere le prerogative d’intensità e abitualità che caratterizzano i rapporti familiari[1].
- Le lesioni personali
Il dettato letterale dell’art. 582 c.p. prevede la causazione di una lesione personale a un soggetto, in grado di procurare una malattia nel corpo o nella mente al medesimo.
Nel nostro ordinamento è previsto anche il reato di lesioni personali colpose, ex art. 590 c.p., per il quale è richiesta la solo colpa e non la coscienza e volontà di voler commettere esattamente il comportamento criminoso richiesto.
Per “malattia” va intesa come una perturbazione funzionale, da qualificare come un processo patologico, acuto o cronico, localizzato o diffuso, che implichi una sensibile menomazione funzionale dell’organismo.
Venendo alla materia che qui è di interesse, se si pone a mente i casi in cui la condotta del mobber è di efficacia lesiva tale da cagionare alla vittima una condizione patologica, di natura sia fisica che psichica, ci ritroviamo nel novero delle condotte richieste dal delitto di lesioni.
Come già detto, a seconda dell’elemento soggettivo, da valutarsi singolarmente caso per caso, il reato potrà essere ascritto al soggetto agente mobber (che nel caso di mobbing orizzontale sarà un collega) a titolo di dolo o colpa e, quindi, configurarsi come delitto di lesioni dolose ai sensi dell’art. 582 o colpose ai sensi dell’art. 590 c.p.
- Le aggravanti generiche e specifiche
Tra le circostanze aggravanti comuni previste dall’art.61 c.p., troviamo al punto n.1 “l’aver agito per motivi abietti o futili”.
Dunque, per “motivo” si intende la causa psichica dell’agire, per “abietto” è, secondo il comune sentire, il motivo ripugnante e spregevole, mentre per “futile” si considera quello sproporzionato all’azione delittuosa tanto da apparire un pretesto più che la vera causa determinante del reato.
Il mobbing può essere considerato come una circostanza aggravante la pena, assumendo sia i connotati propri del “motivo abietto”, nel caso l’agere criminoso sia stato ispirato da un movente riprovevole e moralmente ignobile o sentitamente malvagio e perverso; ovvero “motivo futile”, ad esempio, nel caso calzante del mobbing orizzontale, posto in essere dai colleghi al solo scopo di attaccare la vittima, per mero divertimento o per sfogare le proprie frustrazioni.
Altre volte il fenomeno in esame può assumere le caratteristiche della circostanza aggravante comune prevista dall’art. 61 al punto n. 11, laddove la condotta venga posta in essere con “abuso di autorità o di relazioni domestiche, ovvero con abuso di relazioni di ufficio…”.
L’“abuso di autorità” è il cattivo uso del potere di supremazia nei confronti di un altro soggetto, mentre l’“abuso di relazione” consiste nell’approfittarsi di un particolare rapporto che esiste nei confronti di un altro soggetto.
Pertanto, sono sussumibili nell’aggravante le condotte mobbizzanti che si realizzano in ambito lavorativo, quando sono frutto del rapporto gerarchico lavorativo, ad esempio nel caso del rapporto nel pubblico impiego, dove soggetti in posizione apicale incutono nei loro sottoposti stati di soggezione psichica connessi al timore di ritorsioni disciplinari.
LA RISARCIBILITA’
Laura Lieggi
Avvocata
- Il danno patrimoniale e non patrimoniale
La risarcibilità del danno derivante da mobbing, può essere rivendicata dal dipendente interessato in due modi: in via extra-contrattuale, a norma dell’art. 2043 cod. civ., ovvero in via contrattuale, tenuto conto dell’obbligo del datore di lavoro, riconducibile all’art. 2087 cod. civ., di tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro.
Nel nostro ordinamento, per garantire la convivenza tra i membri della collettività, vige il principio dove ognuno deve comportarsi in modo tale da non recare pregiudizio all’altro, contemplato dall’art. 2043 c.c.
Di talché, ogniqualvolta un soggetto viola una regola di civile convivenza, in modo intenzionale o dovuta alla scarsa attenzione e coscienza incorre nella responsabilità extracontrattuale se ha provocato un danno definito per l’appunto “ingiusto”, perché frutto di una condotta contraria alla legge.
Rilevato l’aspetto generale, va chiarito che nel caso del mobbing, solitamente ricondotto alla responsabilità di tipo contrattuale , a mente dell’art 2087 c.c., un interessante spunto di riflessione sulla dimensione poliedrica della responsabilità l’ha fornito la stessa Corte di Cassazione che ha rilevato come, al fine di tale accertamento, si deve ritenere proposta l’azione extracontrattuale, ex art. 2043 c.c., tutte le volte che non emerga una precisa scelta del danneggiato in favore dell’azione contrattuale, e quindi tutte le volte che il danneggiato invochi la responsabilità aquiliana, ovvero chieda genericamente il risarcimento dei danno senza dedurre una specifica obbligazione contrattuale.
Sulla scorta di detto orientamento interpretativo è agevole affermare che si deve ritenere proposta l’azione di responsabilità contrattuale quando la domanda di risarcimento sia espressamente fondata sull’inosservanza, da parte del datore di lavoro, degli obblighi inerenti al rapporto di impiego.
Il citato orientamento giurisprudenziale consente di affermare, pertanto, che le condotte mobbizzanti possono dar luogo ad una responsabilità di tipo extra contrattuale, fondata sul generale divieto del neminem laedere[2].
Le conseguenze prime di tale scelta si ripercuotono sulla competenza dell’organo giudiziario, sulla prescrizione della richiesta del risarcimento (10 anni) o sull’onere della prova (il dipendente mobbizzato dovrà provare, oltre al fatto lesivo, al danno ed al nesso di causalità, anche l’elemento psicologico del mobber, ossia il dolo o la colpa da parte dell’autore dell’illecito) e soprattutto sulla risarcibilità dei danni.
Ne consegue che possono agevolmente ricondursi ad ipotesi di illecito aquiliano tutte quelle condotte datoriali dolose e/o colpose che arrechino un danno ingiusto, anche di natura non patrimoniale e, dunque, nelle sue articolazioni di biologico e morale, al lavoratore, anche nell’ipotesi di imprevedibilità al momento del fatto dannoso.
Tuttavia, come detto, affinchè il mobbizzato ottenga il risarcimento dei danni da lui subiti sul luogo di lavoro, dovrà essere accertata la condotta ingiustamente lesiva e pertanto il lavoratore dovrà provare le singole condotte vessatorie, la loro intensità lesiva, l’intento persecutorio nei suoi confronti, la non esiguità del danno subito, l’esistenza del nesso di causalità tra le condotte lesive e il danno subito, ed infine l’entità del danno subito.
Pertanto non gli basterà addurre condotte generiche che dimostrano mancanza di stima, scarso impiego in mansioni qualificanti, richiami e rimproveri anche per motivi futili, se manca l’intento persecutorio, oppure se, pur essendoci l’intento persecutorio, l’intensità lesiva della condotta è lieve, e quindi il lavoratore non ha subito un danno obbiettivo e grave
Riconosciuto il danno, va distinto quello di natura patrimoniale da quello morale.
Il danno patrimoniale consiste nella ripercussione negativa che un soggetto subisce sul patrimonio a causa dell’illecito extracontrattuale (o contrattuale) e si compone di due voci:
– danno emergente, ovvero immediato e attuale che si realizza con la diminuzione delle proprie sostanze patrimoniale (ad es. nelle spese mediche affrontate a seguito delle sofferenze psicofisiche patite dalle condotte mobbizzanti);
– lucro cessante, ossia il mancato guadagno e la perdita di future opportunità lavorative o perdita di chance, non meramente potenziale o possibile ma ritenuta, secondo la comune esperienza, certa o in termini di elevata probabilità (ad es. nel caso di mobbing orizzontale che costringere la vittima a rifiutare ulteriore e certe opportunità lavorative, perché non si ritiene più capace, finendo per al avvantaggiare i colleghi interessati e autori del mobbing).
Mentre, diversamente, il danno non patrimoniale le si articola nel danno biologico, inteso come la lesione temporanea o permanente all’integrità psicofisica della persona, suscettibile di accertamento medico legale; nel danno esistenziale definibile come il danno arrecato all’esistenza, cioè quel danno che si traduce in un peggioramento della qualità della vita, pur non essendo inquadrabile nel danno alla salute, che si esplica un’incidenza relativa sulle attività quotidiane e sulla vita di relazione; e del danno morale valutato come la sofferenza interiore soggettiva, ovvero come un turbamento dell’anima frutto di un dolore sofferto.
[1] Cassazione Penale, Sez.VI, sentenza n. 13088 del 2014
[2] Conformi, cfr, Cass. SS.UU. 04.11.1996, n.9522; Cass., Sez. Lav. 28.07.1998, n.7394; Cass., Sez. Lav. 14 .12.1999, n.900; Cass., Sez. Lav. 12.03.2001, n.99; Cass., Sez. Lav., 11.07.2001 n.9385; Cass., Sez. Lav. 29.01.2002, n.1147; Cass., Sez. Lav. 25.07.2002, n.10956; Cass., Sez. Lav. 05.08.2002, n.11756 e Cass., Sez. Lav. 23.01.2004, n.1248)
- La malattia riconosciuta e la causa di servizio
La causa di servizio è il riconoscimento della dipendenza dal servizio di una infermità o di lesioni fisiche, temporanee o permanenti, contratte a causa del servizio prestato. Questo riconoscimento è previsto per i dipendenti delle amministrazioni pubbliche appartenenti alle Forze di polizia, alle Forze armate, per la pensione privilegiata comparto sicurezza e ad altre categorie indicate dalla legge.
Affinché sia riconosciuta la dipendenza da causa di servizio, è necessario che l’infermità o le lesioni derivino da fatti accaduti in servizio o per cause inerenti al servizio (ambiente, condizioni di lavoro, esposizione a cancerogeni, etc.). Viene riconosciuta la causa di servizio anche in via concausale, ovvero anche se il servizio abbia concorso con altri fattori o circostanze nel far insorgere infermità o lesioni.
Con il riconoscimento di causa di servizio è possibile ottenere causa di servizio ed equo indennizzo con le relative prestazioni economiche.
Per i Giudici di legittimità, anche il mobbing può essere considerato una malattia professionale.
Infatti, secondo la Suprema Corte, quest’ultima deve essere estesa ad ogni forma di tecnopatia, fisica o psichica, che possa ritenersi conseguenza dell’attività lavorativa, sia che riguardi la lavorazione che l’organizzazione del lavoro e le sue modalità di esplicazione.
Si tratta della pronuncia che segna un passaggio fondamentale a riguardo, annoverando definitivamente le “vessazioni lavorative” tra quelle indennizzabili (Cass. n. 20774/2018)[1] e consentendo, di conseguenza, la richiesta del riconoscimento della causa di servizio per chi risulta vittima delle stesse.
La procedura per il riconoscimento della dipendenza di infermità da causa di servizio e la concessione dell’equo indennizzo è regolata dal D.P.R. n.461 del 29.10.2001.
La domanda di dipendenza da causa di servizio, fatto salvo il trattamento pensionistico di privilegio, deve essere presentata dal dipendente o dall’avente diritto entro e non oltre 6 mesi dalla data in cui si è verificato l’evento dannoso o da quella in cui ha avuto conoscenza dell’infermità. Tale termine, quindi, deve intendersi perentorio ai fini della liquidazione dell’equo indennizzo.
L’istanza di equo indennizzo può essere presentata dal dipendente in servizio o in quiescenza qualora la menomazione dell’integrità fisica si manifesti entro 5 anni dalla cessazione del rapporto d’impiego.
In caso di avverso provvedimento, il militare può proporre ricorso al Giudice Ordinario (Tribunale Civile in funzione di giudice del lavoro) entro il termine ordinario di prescrizione decennale, a decorrere dalla data della notifica.
[1] La Cassazione Civile, Sez. Lav., 17 agosto 2018, n. 20774, così sul mobbing: “(…) sono indennizzabili tutte le malattie di natura fisica o psichica la cui origine sia riconducibile al rischio del lavoro, sia che riguardi la lavorazione, sia che riguardi l’organizzazione del lavoro e le modalità della sua esplicazione; dovendosi ritenere incongrua una qualsiasi distinzione in tal senso, posto che il lavoro coinvolge la persona in tutte le sue dimensioni, sottoponendola a rischi rilevanti sia per la sfera fisica che psichica”.